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Via Francigena-Vie Romee. A Piacenza stimolante conferenza di Giampietro Comolli sull’antico ruolo di conventi e refettori per garantire la produzione di cibi sicuri per cittadini e pellegrini. Ciclo di tre incontri culturali storici ambientali

“Piacenza ha tutti i titoli per essere una, se non la prima, capitale della conservazione del cibo”.

Ne è convinto Giampietro Comolli, presidente del Comitato Tratta Piacenza vie Romee-Francigena pro-Unesco, protagonista del secondo dei tre incontri sulla Via Francigena piacentina organizzati nella Biblioteca del Convento di piazzale delle Crociate per i “I Giovedì della Basilica”, ciclo di conferenze previste nell’ambito del ricco programma messo in campo dalla Comunità francescana e dalla Banca di Piacenza per celebrare i 500 anni dalla posa della prima pietra di Santa Maria di Campagna.

Nello sviscerare il tema (“Conventi e refettori: Piacenza icona europea della conservazione del cibo”) il dott. Comolli – presentato dal condirettore generale della Banca di Piacenza  Pietro Coppelli – ha illustrato più fattori e condizioni che rendono “la storia propria di città di passo con migliaia di pellegrini cristiani in transito annualmente in 1500 anni di romanità-medioevo-rinascimento un unicum della Regione Emilia Romagna, dell’Italia e dell’Europa”.

Le decine e decine di monasteri e conventi che hanno costellato per secoli (dal V° al XVII° secolo) la città (sempre citata sui libi di storia come la città delle 100 chiese e la provincia con 100 castelli) ne sono non solo la prova reale, ma sono stati i luoghi dove pratica, esempi, ricerca, sperimentazione hanno consentito di “creare” alimenti, cibi e bevande che duravano nel tempo.

La necessità di far fronte all’ alimentazione urbana – e spesso anche di territori limitrofi meno fortunati – in periodi di carestia, clima avverso, malattie,  pestilenze,  guerre, battaglie fra principi, fra guelfi e ghibellini …. ha obbligato i monaci , i frati a studiare «metodi di conservazione per dare garanzia e sicurezza alimentare ai cittadini e ai pellegrini».

Lo stretto legame storico-antico con i pellegrini ha determinato, secondo il relatore, un imprimatur naturale di biodiversità nutrizionale che dura da secoli in modo molto naturale, senza rincorrere mode e/o alchimie per uno stretto rapporto prodotto agricolo-cibo sicuro e salutare, che va ben oltre la semplice creatività culinaria e gastronomica che emerge in tempi più recenti del  XVII-XIX secolo, quando molte altre città e paesi hanno assimilato e fatto propria una cultura piacentina ancorata al territorio.

«Già con san Colombano – ha esemplificato Comolli – arrivò la birra all’inizio del VII° secolo; già prima gli etruschi producevano vino invecchiato e passito; la prima Crociata partita proprio dove oggi c’è il convento dei frati di Santa Maria di Campagna nel 1095-99 dopo mesi di accampamenti di tanti popoli diversi, la forte presenza dell’ordine dei Templari, un san Bernardo e un san Rocco che si fermano a Piacenza, tanti altri monaci, santi e vescovi transitanti a Piacenza, tutti hanno lasciato in eredità qualche tradizione alimentare, che i piacentini, prima di altri, hanno saputo mettere a frutto proprio per i più fragili ».

Il presidente del Comitato Tratta Piacenza ha così proseguito: «Piacenza ha sempre usato “il cibo” come ospitalità, messaggio di pace, di accoglienza. Non come opulenza, ricchezza, ma come giusta misura fra nutrizione necessaria e ambasceria di una propria antica cultura. Penso alla storia continentale-padana del burro e del grasso che si è incrociata con quella dell’olio di oliva di origine mediterranea; all’uso del miele e del sale, alla doppia cottura della carne e alla pratica di insaccarla con spezie già nel XII-XIII secolo. Alle citazioni del furmai piasentino già nel XIV secolo come “il migliore e il più noto per secoli, antesignano proprio del Grana Padano che del Parmigiano». Piacenza non unica, ma più di altre città, può considerarsi una capitale, una icona, una fonte di “nuovi” cibi durevoli, quindi più sani. «Penso alla preparazione della mostarda (mosto d’ ardente)nella unica formulazione insieme di frutta, verdura e semi di sesamo , alla giardiniera agrodolce, al croccante di frutta secca, ai canditi di arance,  alla doppia cottura dei buslan dur da intingere nello zabaione o nel passito, all’uso dello zucchero e dell’aceto di vino nelle prime salse italiane a base di lardo, aglio, prezzemolo, ma anche alla tradizione del nocino, alla frutta sciroppata antesignana della mostarda  al mosto cotto, al latte in piedi, alle confetture e composte.

Solo a Piacenza c’è una enorme differenza e considerazione fra un bollito e un lesso.  », ha spiegato il dott. Comolli stimolando l’appetito dei presenti, visto il momento dell’ora di cena. «Piacenza – ha concluso il manager piacentino – può ambire a chiedere un riconoscimento di patrimonio mondiale della “conservazione del cibo” per la vastità delle prove, del numero di alimenti, di cibi (e Dop) ancora oggi presenti sulle nostre tavole risalenti a capacità e cura di monaci nei tanti monasteri cittadini di 1000-1500 anni fa con le prime aggregazioni monacali di  benedettini, cistercensi sia entro i confini della diocesi di piacenza Bobbio ma anche attraverso i possedimenti imperiali e Regis concessi all’interno delle diocesi di Modena, Brescia e Milano.

Questo “ben di Dio”, Piacenza lo deve soprattutto alla propria capacità di essere città aperta , ma anche chiusa e riservata, non amante dell’apparire, non alla ricerca della vendita a tutti i costi, sicuramente frutto di scambi e di contaminazioni naturali fra culture antiche e diverse. Purtroppo alcuni di questi cibi nati nei refettori piacentini sono passati di moda: perché non recuperarli e farli nascere di nuovo attraverso anche solo un marchio cittadino, un logo, un brand che tutti possono usare?». Ma di questo se ne parlerà nel terzo e ultimo incontro programmato – sempre nella Biblioteca del nel Convento della Basilica di Santa Maria di Campagna – giovedì 6 aprile: tema, “Storia e vita, cultura e ambiente, etica. Piacenza ha bisogno di un brand identity”.

Un articolo di Emanuele Galba.